venerdì 24 febbraio 2012

ELIMINIAMO IL QUINTO POTERE "LA CASTA DEI GIORNALISTI"

Da quando, nel 2007, spopolò nelle librerie italiane il libro-inchiesta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, due giornalisti de “Il Corriere della Sera” intitolato “La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili” ottenendo un successo notevole, abbiamo assistito all’inflazione dell’uso del termine “casta”. Abbiamo sentito parlato della casta dei politici, della casta dei magistrati, della casta dei privilegiati. A questo punto, si renderebbe necessaria l’analisi di una “casta” mai troppo spesso coinvolta nella prassi critica: la casta dei giornali.




Ebbene sì, uno dei maggiori sintomi di buon funzionamento di uno stato democratico è senz’altro quello di una corretta informazione, gestita nella maniera più libera e indipendente possibile. L’informazione è infatti uno degli strumenti più potenti di controllo del potere politico. Fatte queste dovute premesse, andiamo a vedere come vanno le cose in Italia.



COS’E’ LA CASTA? – Ci sembra doveroso iniziare con il dare una definizione del termine casta, termine ad uso inflazionato come abbiamo avuto modo di dire, ma forse utilizzato anche per scopi estranei ad esso. Il termine “casta” infatti, di induista memoria, indica un gruppo sociale chiuso caratterizzato da specifiche norme di comportamento e dal ruolo predeterminato. A voler considerare anche la definizione estensiva del termine, si potrebbe far coincidere la casta con un gruppo arroccato nella difesa di interessi particolaristici.



Edotti adesso del significato più puro dell’oggetto posto alla nostra attenzione, proviamo a vedere se, in Italia, si possa parlare di casta anche nell’ambito degli organi di informazione.



LA CASTA DEI GIORNALI – Informazione libera e indipendente come presupposti essenziali di ogni democrazia, abbiamo detto più sopra. E se i giornali diventassero la voce dei partiti politici, invece, che cosa accadrebbe?



Scenario che sembrerebbe a dire il vero non così tanto utopistico e lontano, almeno andando ad analizzare il sistema di finanziamento pubblico alla carta stampata.



In pieno clima di manovre disperate e innalzamenti scellerati di IVA e tasse, infatti, passa quasi inosservato il rischio di un taglio pesantissimo nei confronti dell’editoria che, guarda caso, andrebbe a colpire le cooperative no profit con buona pace del principio del pluralismo dell’informazione. Infatti dei 194 milioni stanziati per il 2012 a sostegno dell’editoria, 50 verranno utilizzati per il rateo di un debito della Presidenza del Consiglio con Poste Spa, 40 per coprire il costo della convenzione con la Rai e 20 destinati a coprire altre spese varie. E a pagare chi saranno? Sempre gli stessi, ovviamente, i giornali senza padrini. Si stima infatti la possibile chiusura di 100 testate; il cerchio si sta chiudendo intorno alla casta.



Per capire meglio il sistema di finanziamenti pubblici cui si è appena accennato basta scavare nel passato e precisamente ripescare una legge del 1981 alla luce della quale il legame tra informazione e politica non appare poi molto assurdo. Ad inizio anni 80, infatti, la legge permetteva ai giornali di partito di ricevere aiuti pubblici. Se tutto fosse rimasto come allora, i soldi che lo Stato sborserebbe oggi per sostenere gli organi di stampa si stimerebbero intorno ai 28 milioni di euro all’anno. La legge però cambia in fretta e così, nel 1987, si stabilisce come condizione sufficiente per la ricezione di finanziamenti pubblici, la dichiarazione di due deputati volta ad accertare l’appartenenza del giornale al movimento politico. Poteva finire così? Certo che no in quanto in politica funziona benissimo il principio del “panta rei” e, d’altra parte, bisognava rassicurare l’opinione pubblica sulla possibilità di una stampa estranea a logiche politiche. E così nel 2001 il sistema viene rivoluzionato nuovamente: il trucco dell’organo politico non è più concesso, adesso occorre essere una cooperativa.



Il problema per i partiti politici, in tutto questo cambiamento, qual è stato? Nulla di così radicale, in quanto i giornali già finanziati, sono stati semplicemente trasformati in cooperative. Semplice, no? Un esempio fra tanti potrebbe essere quello di Libero che era organo del Movimento Monarchico Italiano, trasformato poi in cooperativa e successivamente in s.r.l.



Il dubbio iniziale, a questo punto rimane: con questo sistema di finanziamenti pubblici e con il legame nemmeno troppo celato tra giornali e partiti, si può parlare di vera informazione, nel suo significato più autentico?



D’altronde, come si è detto all’inizio, la casta può essere considerata anche un gruppo chiuso alla difesa di determinati interessi. E se due più due da sempre ha fatto quattro…



CONSISTENZA DEI FINANZIAMENTI – La realtà di oggi però, per quanto detto più sopra, appare mutata se non altro per quanto attiene alla consistenza dei finanziamenti. C’è crisi d’altronde, e i soldi pubblici scarseggiano e vanno ben destinati. Allora, chi finanziare?



Innanzitutto c’è da dire che la parte maggiore dei finanziamenti è formata dai cosiddetti finanziamenti indiretti, ovvero rimborsi erogati per le spese elettriche, telefoniche, postali e via dicendo.



Non è facile in ogni caso trovare una legge di riferimento per avere dati oggettivi a riguardo. Il sistema di finanziamenti all’editoria infatti si fonda su una serie di leggi e provvedimenti emanate nel corso degli anni, che ha contribuito a creare un sistema confuso. Il risultato finale, però, appare essere uno solo: si arricchiscono le grandi testate, collegate sempre al potere politico come più su si è detto, mentre i piccoli editori o cooperative no profit non rappresentative di alcun potere politico si affacciano al mondo dell’editoria con molta fatica. Questo perché? Per il semplice fatto che i criteri di distribuzione dei soldi pubblici sembrano essere basati sui costi e sulla tiratura. Più si stampa, più si spende, più si è finanziati. Inoltre, occorrerebbe vendere almeno il 25% della tiratura. E, certo è, più si hanno agganci in alto, più tutto questo appare relativamente semplice da realizzare.



Qualche esempio del sistema appena delineato? La RCS è arrivata a prendere in un anno 23 milioni, la Mondadori 19 per le poste e 10 per la carta, Il Sole 24 ore 19, La Repubblica – Espresso 16, l’Avvenire 10 e via dicendo.



ABOLIZIONE DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI? – Nel mese di luglio appena trascorso è stata proposta una modifica della legge 69 del 3 febbraio 1963, legge che regola il settore, attraverso un decreto che prevedeva l’abolizione dell’Ordine dei giornalisti, provocando in questo modo uno stravolgimento del sistema di accesso alla professione. Il tema merita un approfondimento alla luce dell’argomento trattato e avendo sempre in considerazione che si parla del sistema presente in Italia ovvero un sistema che come abbiamo avuto modo di vedere non funziona.



La riforma non è stata approvata, e quindi tutto è rimasto tale a prima. Ma, una modifica così profonda, era auspicabile per sconfiggere questo sistema chiuso dell’informazione?



Un Ordine, a qualsivoglia professione si riferisca, ha delle regole precise, che mira a far rispettare a tutti, indipendentemente e al di fuori da qualsiasi potere politico. Una sorta di garanzia sull’atteggiamento del giornalista, per attenerci al nostro tema, e a garanzia di ciò che è “deontologicamente corretto”. Detta così, sembrerebbe che l’abolizione dello stesso avrebbe favorito una vera e propria stampa di regime, slegando i giornalisti affiliati alle testate di partito dall’obbligo del dover rispondere del loro operato all’Ordine stesso. Ma l’Italia è un paese particolare, e l’informazione è sempre stata interessata da conflitti di interesse abbastanza palesi tanto che, lo stesso Ordine dei giornalisti, non appare così lontano da certe logiche politiche. Anzi, troppo spesso i giudizi deontologici sono impregnati di mediazione politica. Forse, quindi, un’abolizione dello stesso avrebbe potuto aprire un varco alla possibilità di un ripensamento di tutto il sistema di informazione in Italia.



LA LEGGE ANTI-BLOG E ANTI-INTERNET – Un totale ripensamento del sistema di informazione in Italia andrebbe rivisto anche alla luce della tendenza a creare veri e propri organi di stampa alternativi sul web. Se infatti la stampa cartacea è troppo spesso soggetta a controllo politico, l’unica vera e propria informazione libera anti-casta è quella che viene dal “basso”. Si moltiplicano blog, siti, ma anche gruppi sui social network atti a diffondere notizie di cui altrimenti non si avrebbe conoscenza, e a dar voce a chi può scrivere senza dover rendere conto al padrone.



Ma, proprio a fronte di questo atto di ribellione volto alla semplice informazione, “il padrone” ha preparato la risposta: il premier Silvio Berlusconi, infatti, ha deciso di inserire all’interno della legge anti-intercettazioni una norma che obbliga chi scriva su un blog o simili alla smentita entro 48 ore di una notizia qualora la parte interessata si sia sentita offesa. Altrimenti, quale sarebbe la conseguenza? Una multa, fino a 12.000 euro. E sembra proprio vero, quindi. In Italia la libera informazione non paga.



L’ECCEZIONE CHE CONFERMA LA REGOLA – E se quindi la Casta è la regola, basata su finanziamenti pubblici che permettono il controllo dell’informazione pubblica, esiste però chi ha rinunciato agli stessi fondi, ergendosi a splendida eccezione. Il Fatto Quotidiano, infatti, giornale fondato nel 2009 e il cui nome è un omaggio all’indimenticato Enzo Biagi, trova finanziamento unicamente dai proventi della pubblicità e delle vendite e, per enfatizzare la cosa, dal numero 7 del gennaio 2010 ha ritoccato il logo della testata aggiungendo la scritta “Non riceve alcun finanziamento pubblico”.



Se le prospettive quindi non ci possono apparire rosee nell’immediato, rimane la speranza di poter assistere alla nascita di altre realtà del genere. Perché un paese senza un’informazione libera, è un paese senza voce.



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