venerdì 2 marzo 2012

IL PARTITO DEI MAGISTRATI

Il fine giustifica i mezzi: così se ne uscì nel 1993 Francesco Saverio Borrelli, capo del pool di Milano, per respingere l’accusa di usare il carcere come strumento di pressione su chiunque si rifiutasse di collaborare, pratica sistematica che ebbe tragiche conseguenze. In una democrazia normale sarebbe successo un putiferio: i cliché del cinismo rivoluzionario stanno bene in bocca a un magistrato che non deve avere altri fini né altri mezzi che l’applicazione scrupolosa della legge. In Italia invece si preferì mettere in mora lo stato di diritto, inseguire quel fasullo miraggio morale passato alla storia come Mani pulite e dare vita a una lunga, disonorevole stagione che ha visto procure e aule di tribunale trasformarsi in luogo di linciaggio ed epurazione politica.




Come è potuto accadere che una funzione dello stato si sia fatta partito, sia diventata così potente da distruggerne altri, da scavalcare più volte il Parlamento, da rovesciare governi, è il tema del pamphlet di Mauro Mellini, avvocato e radicale di lunghissimo corso, una vita passata a difendere le garanzie dell’imputato. A suo dire, la deriva viene da lontano. Nel Dopoguerra, i maggiori partiti hanno altre priorità che garantire il diritto del cittadino alla giustizia giusta, anzi. In un mondo diviso in due, alla Dc non dispiace affatto tenere in piedi parte della cultura giuridica e dell’impalcatura autoritaria del fascismo. Quanto al Pci, la dottrina, non solo Marx ed Engels ma anche Gramsci, lo porta ad avere poca considerazione per le libertà formali che chiama addirittura “borghesi” in segno esplicito di disprezzo, e subordina alla liberazione dallo sfruttamento e dal bisogno che solo il socialismo può realizzare. Il Psi frontista va a rimorchio.



La Costituzione nasce così sulla base di un compromesso che poco ha di liberale, che non pone la questione della responsabilità dei magistrati e si accontenta di farne discendere la legittimità dall’aver superato un concorso statale. Nel 1987 i radicali e i socialisti di Craxi promuovono un referendum per abrogare leggi che limitano pesantemente i casi in cui un magistrato può essere chiamato a rispondere civilmente dei propri errori. La pubblica opinione è ancora sotto choc per quanto accaduto ad Enzo Tortora. Il popolare conduttore televisivo, finito in carcere per l’incuria, la malafede e la smania di protagonismo di due procuratori di Napoli, è il cavaliere bianco della campagna. Oltre l’ottanta per cento degli elettori vota sì: a gran voce grida che chi sbaglia va punito, anche se è un procuratore o un giudice. Secondo Mellini il referendum viene vissuto dai magistrati come una ferita, un’umiliazione bruciante.



Comincia una guerra asimmetrica: la politica non vuole combattere per davvero, le toghe sono sempre più compatte e determinate. Attraverso Luciano Violante, magistrato eletto nelle file del Pci-Pds, mettono un’ipoteca pesante sul maggiore partito della sinistra che non si libererà mai più dalla sudditanza alla subcultura giustizialista. Lo strapotere delle correnti sindacali, la selezione mirata dei membri togati del Csm rendono l’autogoverno antidemocratico, il suo funzionamento blindato. Il magistrato che prende cantonate continua a non essere punito. Mentre viene attaccato, trascinato nel fango e linciato un Corrado Carnevale, primo presidente della Cassazione, fra i più brillanti giuristi italiani, per aver osato cassare per vizio di forma sentenze di processi di mafia. Il partito dei magistrati è più che mai influente. Ha il sostegno di grandi gruppi editoriali, di giornalisti e conduttori televisivi che con le veline delle procure hanno fatto carriera. E si mette di traverso a qualsiasi riforma della giustizia e delle istituzioni in senso liberale.



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